L’Italia diventerà mai un paese leader nel settore della tecnologia?

L’Italia diventerà mai un paese leader nel settore della tecnologia?

I più famosi sono sempre quelli italiani. Ma in Italia non hanno mai portato niente di innovativo o non hanno permesso all’Italia di essere un paese leader nel settore della tecnologia. Cosa potrebbe cambiare?

Quando esce dal carcere, nel giugno del 1966, il “sogno italiano” di Felice Ippolito è già finito. Era durato un pugno di anni, dieci o dodici, dal 1952 al 1964. Durante i quali l’Italia poté coltivare una fondata utopia: diventare una potenza industriale.

Attestata su tecnologie di punta, su una solida infrastruttura di ricerca, su tecno-manager ambiziosi e aggressivi, su una competente burocrazia statale, su politici e imprenditori e su un ceto di intellettuali, liberali e radicali, determinati alla modernizzazione del fragile paese uscito dal fascismo e dalla guerra.

L’Italia che precede il boom economico è un singolare e stupefacente laboratorio tecnologico, senza paragoni in occidente se si esclude, naturalmente, l’America del crucial decade (1945-1955) che metterà a frutto il lascito di ricerca e di scienza della guerra vinta per disegnare una fantastica egemonia leader della tecnologica.

L’ambizione era, addirittura, l’ingresso accelerato nel club delle nazioni che avrebbero scritto il canovaccio del secondo ’900. Fondata utopia. Essa ebbe, a supporto, due figure emblematiche: Enrico Mattei e Felice Ippolito, appunto. Li accumunò l’utopia. E anche lo strano destino che impedì loro di trasformarla in realtà. Fondata utopia, però.

In quel decennio sorprendente Giulio Natta scopre il polipropilene isotattico che aprirà alle “nuove plastiche”; Domenico Marotta inventa il microscopio elettronico e fa dell’Italia un centro riconosciuto di attrazione e di produzione dei nuovi antibiotici, a cominciare dalla penicillina;

L’Italia, incredibile a dirsi, avrebbe potuto seguire a ruota l’America. C’era Mattei con il suo disegno “scandaloso” dell’autonomia negli idrocarburi. Ma tanti altri. E in campi che avrebbero potuto dare all’Italia una leadership tecnologica in aree di punta del miracolo del dopoguerra: gli idrocarburi, il nucleare, l’elettronica, la chimica, la biologia molecolare, la cibernetica, la farmaceutica.

Adriano Olivetti costruisce “fabbriche riformate” in cui si concepì il primo calcolatore definibile personal computer; Buzzati Traverso fa di Napoli un centro internazionale della biologia molecolare e dell’imminente rivoluzione della genetica (poi, grazie, a una protesta sindacale inaugura il brain drain italiano e si rifugia a Parigi); Luigi Broglio lancia il San Marco I e l’Italia entra, di prepotenza, nel ristrettissimo club delle potenze satellitari. E l’elenco potrebbe continuare.

Gabriele

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