Abbiamo bisogno di un nuovo femminismo
L’idea di femminismo dei nostri giorni
Fateci caso.
Sbaglia Donald Trump quando dice alle dipendenti della Casa Bianca di vestirsi-da-donne.
Ma sbaglia anche Diletta Leotta quando si presenta a Sanremo per parlare di cyberbullismo troppo-vestita-dadonna. Sbaglia Marissa Mayer, capo di Yahoo, quando si prende solo 2 settimane di maternità dopo il parto.
Ma sbagliano anche tutte quelle donne che decidono di lasciare il lavoro dopo la nascita dei figli. Nel cercare di affermare una nuova idea di donna, abbiamo finito per costringerci in un sentiero angusto e claustrofobico.
Come ne usciamo? Vi racconto 3 storie. La scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie , nel discorso che l’ha consacrata nuova voce del femminismo contemporaneo, racconta la sua prima lezione di scrittura in università.
Era preoccupatissima, e non per la materia che avrebbe insegnato, ma per cosa avrebbe dovuto indossare. Temeva che, mostrandosi troppo femminile, non sarebbe stata presa sul serio. Così rinunciò a lucidalabbra e gonna corta e indossò un tailleur molto mascolino. «Vorrei non averlo fatto» dice anni dopo. «Se avessi avuto la fiducia in me stessa che ho adesso, i miei studenti avrebbero potuto imparare ancora di più».
Nel 1968, alcune donne boliviane decisero di scalare le Ande.
Indossarono ramponi e scarponi sotto le loro gonne ampie, le cholitas. Gli uomini ridevano. E loro rispondevano: «Possiamo vestirci come ci pare. Siamo le alpiniste con le cholitas ».
1.700 anni prima, ad Alessandra d’Egitto una donna insegnava astronomia. Si chiamava Ipazia e durante le sue lezioni rifiutava di indossare l’abito femminile tradizionale: si vestiva orgogliosamente da studiosa, come tutti gli insegnanti maschi.
Tre storie diverse, ma che profumano di fresco. E dimostrano che essere femministe non è un codice di abbigliamento, non è un suffisso alla fine di una parola (avvocato, avvocata, avvocatessa?), non è una scelta obbligata per ogni situazio. Ma il coraggio di essere autenticamente se stesse.